L’estrazione della pietra di Prun
L’estrazione della pietra di Prun è attività esclusiva della Valpolicella, perché in nessun altro luogo d’Europa e del mondo la scaglia cretacea appare come tra noi.
Suo grande pregio la resistenza millenaria alle intemperie: si dice che caldo e freddo la rendono più duratura. Per questo l’artigianato che ne deriva, con un iter lunghissimo, merita un’ampia descrizione. Esso cominciò a svilupparsi in galleria e la prima cava documentata (Torbe 1204) non può che confermare un sistema diffuso.
Dalla scaglia cretacea (50 milioni di anni, ricca di ammoniti pietrificate, con diametro di pochi centimetri a un metro) si estraevano i vari strati separati da un velo d’argilla; in tutto 73 di diverso spessore, ognuno con nome che indica la più comune destinazione (“seciaron”: adatto a secchiai) o la qualità (“marseto, stopegna, rabiosa”).
Da un’armatura di sostegno si aggrediva la fronte su pendio della collina, con “ponte” (punte, sbarre di acciaio poligonali) lunghe un metro e, usando anche delle mine, si “cassava la banca” cioè si toglievano gli strati superiori più teneri (“lòe, gòlo”) fino a ricavare un vano quadrato o quasi di ¾ metri di lato e alto 70/80 centimetri. In questo foro, lavorando rannicchiati si apriva a “ponta e massòla”, al bordo più estremo, un canale profondo circa 25 cm. In questo modo si tagliavano fino a 4 strati, mentre al fondo si “pungeva” solamente il “corso” più basso; quindi dal fronte, fra gli strati tagliati dal canale e quello sottostante, in tacche predisposte si inserivano cunei metallici con guarnizioni di lame più lunghe dette “morse” per aumentare e addolcire insieme la forza di stacco.
Con mazze pesanti si spingevano gradualmente i cunei, che “scavezzando” lo strato inferiore lungo la linea di “puntura” al fondo della “banca”, lo staccavano dalla parete e tutto il blocco lentamente si alzava di qualche centimetro.
Con esperta attenzione, battendo sempre più avanti sulla “Leà” (levata, era il blocco tagliato dalla “banca” composto da tre o quattro strati ancora uniti insieme) per evitare dannose fratture e ascoltando il suono che rivelava il distacco dalla sede, si liberava completamente la “leà” stessa pesante diverse tonnellate. Si inserivano poi sbarre metalliche ad uso di leva (“lière”), fino a far entrare nell’apertura dei rulli di legno muniti alle estremità di due fori perpendicolari. La punta della “lièra” inserita nei fori consentiva di far avanzare i tre o quattro strati ancora uniti fino a tirarli in bilico verso l’esterno. A questo punto, un ammasso del più tenero brecciame scavato inizialmente formava la “castelà” su cui la “leà” veniva ribaltata nei primi tagli.
Nei tagli successivi più bassi, con travi inclinate e rulli abilmente manovrati, si portava il tutto ad un piano di lavorazione in cava, o sul carro diretto al laboratorio. L’abilità del “prearòl” arrivava al punto che una sola persona riusciva a tagliare dalla “banca” blocchi pesanti decine di tonnellate, farli scendere lentamente sui rulli al piano 5-6 metri più sotto, sistemarli su robusti carri senza pianale, per il trasporto ai luoghi d’impiego.
Nell’alta collina la pietra di Prun dette lavoro per secoli a centinaia di “prearòi, scalpellini, careteri”. Per scavare queste gallerie furono necessari milioni di battute di “ponta e massòla” al freddo umido e scuro, dove il “prearòl” entrava con il buio della mattina e ne usciva spesso col buio della sera con una frugalissima refezione meridiana.
Sul piano di lavoro, la prima operazione consisteva nel “difendere” (staccare) ogni strato dagli altri tre (o due, quando lo spessore non consentiva l’insieme di quattro). Il distacco era relativamente facile, battendo in testa ad ognuno, eccetto nei casi in cui la saldatura era più resistente (“rabiosa”).
Ritagliate su misura, le varie lastre prendevano generalmente la via del laboratorio, ma a volte venivano lavorate in cava. Così si scavarono chilometri di gallerie. Il “prearòl” è indubbiamente simbolo di costanza, di resistenza, di fatica e sacrificio: si entrava in galleria la mattina in compagnia delle stelle e uscirne con l’oscurità della sera per due terzi dell’anno, sempre esposti all’umidità filtrante degli “arsi” (fratture verticali nella roccia).
Intorno al 1935 ne fu proibita la prosecuzione e da allora la pietra di Prun si estrae nei luoghi dove la scaglia cretacea affiora in superficie o a modesta profondità.